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60 anni dell’Ordine, un grande evento per una professione che guarda al futuro

E’ stato un grande evento quello che si è svolto a Roma il 3 febbraio scorso in occasione dei 60 anni dell’Ordine dei giornalisti. Un appuntamento di riflessione e proposte, non una mera “celebrazione”, un momento di confronto con tanti interlocutori di alto livello, dal ministro della giustizia Nordio al sottosegretario all’informazione Barachini, insieme a importanti testimonianze di colleghe e colleghi impegnanti sul campo. Qui la news relativa all’intervento del presidente Bartoli.

“Il dovere della verità” – Carlo Bartoli introduce l’evento in occasione dell’anniversario della legge sull’ordinamento professionale

Il 3 febbraio del 1963, sessanta anni fa, il Parlamento approvava la legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti. È trascorso un lasso di tempo enorme per la nostra società e ancor più per la nostra professione che, in questo periodo, ha vissuto una straordinaria e tumultuosa trasformazione.

Una trasformazione che ha portato nel tempo i giornalisti a svolgere funzioni che in precedenza venivano svolte da figure che sono state progressivamente espulse dai processi produttivi. Una trasformazione che ha portato, nel bene e nel male, il giornalista a essere non più solo protagonista del proprio articolo, ma dell’intera gestione editoriale dei contenuti prodotti.

L’onorevole Guido Gonella, ispiratore della legge, per primo sentì la necessità di istituire l’Ordine dei giornalisti a garanzia dei professionisti dell’informazione, ma soprattutto dei cittadini, ai quali deve essere assicurato il diritto di essere informati.  Questo hanno fatto i padri del giornalismo italiano: Indro Montanelli, Enzo Biagi, Oriana Fallaci, Sergio Lepri, Gianni Brera, Sergio Zavoli… e tanti ancora.

L’Ordine dei giornalisti in questi sessanta anni ha attraversato la storia della Repubblica, con i suoi successi, le sue eccellenze, le sue tragedie e i suoi lati oscuri. Per illuminare la storia di questo Paese, i giornalisti hanno offerto un pesante tributo di sangue. Trentuno colleghi, trentuno di noi, hanno pagato con la vita il loro impegno per raccontare verità nascoste o scomode: uccisi dalle mafie, dal terrorismo o nei teatri di guerra; uccisi perché testimoni scomodi di conflitti sui campi di battaglia e di guerre non dichiarate, testimoni di stermini, barbarie, atrocità.

I loro nomi li voglio ricordare qui:

Cosimo Cristina, Mauro de Mauro, Giovanni Spampinato, Giuseppe Impastato, Mario Francese, Giuseppe Fava, Mauro Rostagno, Giuseppe  Alfano, Mino Pecorelli, Giancarlo Siani, Carlo Casalegno, Walter Tobagi, Graziella De Palo, Italo Toni, Almerigo Grilz, Guido Puletti, Marco Luchetta, Alessandro Ota, Dario D’Angelo, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Marcello Palmisano, Gabriel Gruener, Antonio Russo, Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello, Enzo Baldoni, Fabio Polenghi, Vittorio Arrigoni, Andrea Rocchelli e Simone Camilli. A tutti loro e alle loro famiglie va il nostro pensiero commosso e addolorato.

E pensare che oggi colleghe e colleghi vengono additati spesso a “nemico pubblico”, diventano oggetto di odio immotivato e colpiti durante il loro lavoro. Lo abbiamo visto in tante manifestazioni No-Vax  dove sono stati attaccati proprio da coloro a cui avrebbero dato voce. Vediamo le violenze e le intimidazioni delle tifoserie: non c’è classifica deludente che non trovi, quale capro espiatorio, un collega o, meglio ancora, “i giornalisti”. Una scena che si ripete in molti, troppi episodi di cronaca con cronisti, fotografi, videoreporter bersaglio di una rabbia cieca.

E poi ci sono le aggressioni e le minacce alle colleghe e ai colleghi “scomodi”. L’Italia detiene un triste primato in Europa: sono ventidue i giornalisti che per poter lavorare sono costretti a vivere sotto scorta. Ma non sono gli unici: ci sono molte altre storie: auto bruciate, buste con proiettili o animali sgozzati recapitati a domicilio, avvertimenti di ogni tipo.

A minacce e violenze si aggiungono altri atti intimidatori, più sofisticati ma non meno temibili. Ogni anno sono centinaia le azioni giudiziarie palesemente infondate che pesano come macigni sul lavoro di giornaliste e giornalisti. E sono ancora più pesanti quando le querele o le esorbitanti richieste di risarcimento colpiscono le fasce più deboli della professione. Sono azioni vigliacche che talvolta raggiungono lo scopo di far desistere dallo scrivere il vero.

A queste difficoltà si aggiunge una condizione del lavoro giornalistico sempre più frammentata, con troppa precarietà, che inevitabilmente incide sulla qualità, con colleghe e colleghi sottopagati a fronte di un  enorme impegno, spesso senza prospettive di stabilizzazione. Nonostante tutto, noi siamo qui.

Dopo sessant’anni l’Ordine dei giornalisti svolge ancora un ruolo fondamentale a tutela dell’informazione professionale in grado di affrontare le sfide del futuro e di offrire un servizio ai cittadini e alla democrazia, avendo come stella polare i principi della nostra Carta Costituzionale e l’articolo 21 che sancisce il diritto e la libertà di informare e di essere informati.

Viviamo oggi in un ecosistema digitale che non modifica solo le modalità e i meccanismi del lavoro giornalistico, ma la dimensione stessa delle nostre vite, delle nostre abitudini, dei nostri percorsi di conoscenza e di informazione. Un ecosistema che offre enormi opportunità e rischi mai prima sperimentati. Vediamo con preoccupazione crescere gli effetti distorsivi e il linciaggio digitale – senza difese, senza appello e senza possibilità di ottenere giustizia – che avviene sui social media e che viene amplificato da algoritmi che alimentano discredito, discriminazioni e linguaggi di odio. Siamo vittime e spettatori, tutti noi, di ondate di disinformazione e manipolazioni il cui obiettivo è distorcere la percezione della realtà a favore di poteri  il cui volto è celato.

In questo quadro, l’informazione professionale assume una nuova centralità e il giornalista deve avere ancora più attenzione ai propri doveri: non derogare mai dalla verifica rigorosa delle fonti, attenersi alla continenza nel linguaggio, avere a cuore l’accuratezza della narrazione e praticare, sempre e comunque, il rispetto per la dignità della persona. Il giornalismo deve ritrovare la dimensione etica del proprio lavoro, quell’orizzonte di valori fondanti basati sulla nostra Costituzione.

Per fare questo, però, è indispensabile garantire l’accesso alle fonti,  a cominciare da quelle giudiziarie, estendere a tutti gli iscritti all’Albo la norma sul “segreto professionale” senza il quale i giornalisti verrebbero privati di fonti importanti e i cittadini finirebbero per essere imbavagliati. Così come è  urgente una norma che scoraggi le azioni giudiziarie temerarie, le cosiddette querele bavaglio. La presunzione di innocenza è un principio sacrosanto, ma non può diventare un alibi per tacere di fatti di grande rilevanza pubblica. Sulle intercettazioni esiste già una legge che deve essere applicata con maggiore attenzione dalla magistratura e comunque siamo aperti al confronto, stimolando i colleghi a un vaglio più attento, selezionando brani di conversazioni non utili alla comprensione dei fatti ma che portano alla ribalta relazioni e fatti privati del tutto ininfluenti e non di interesse pubblico.

Oggi, e veniamo ai compiti dell’Ordine, anche per un semplice richiamo disciplinare si possono avere fino a cinque gradi di giudizio, un caso unico a livello planetario. Occorre  una norma che permetta agli Ordini di dare pubblicità alle sanzioni comminate senza rischiare di essere sottoposti a esorbitanti richieste risarcitorie per violazione della privacy. Chi sbaglia deve pagare, ma non accettiamo che le colpe di pochi noti possano screditare l’opera preziosa di decine di migliaia di colleghe e colleghi che raccontano la nostra terra, le nostre vite con impegno, dedizione e

scrupoloso rispetto della deontologia. Lo dico anche a qualche illustre collega che pontifica in maniera ingenerosa e un po’ qualunquista condannando a priori tutti gli altri colleghi, ma che dimentica di fare le pulci ai giornali sui quali scrive. Operazioni di cleaning conscience non servono a nessuno. Ce le risparmino.

Occorre avere un giornalismo responsabile e al passo con i tempi, ma siamo legati ad una legge professionale dai princìpi validi, ma con tante norme obsolete e inadeguate.

Non è possibile, vista la rapidità con cui mutano gli scenari dell’informazione, pensare di normare sino al più piccolo dettaglio una professione che, invece, deve esser dinamica e in grado di adattarsi all’evoluzione della società. Abbiamo necessità di avere strumenti più incisivi di autoregolamentazione, anche sotto il profilo disciplinare, per l’accesso all’albo, per l’esame di Stato, per modificare le cervellotiche norme elettorali.

Noi siamo pronti alla sfida dell’innovazione e del cambiamento: chiediamo alle istituzioni atti concreti per poter svolgere con diligenza e onore quei compiti costituzionali che sono fondamentali per un paese libero come l’Italia.